Il cielo tutto quanto
Silvia Magistrini
“Stamattina pedalavo lungo lo Stadionkade e mi godevo l’ampio cielo ai margini della città, respiravo la fresca aria non razionata. Dappertutto c’erano cartelli che ci vietano le strade per la campagna. Ma sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto”.
È questo passo del diario di Etty Hillesum (Milano, Adelphi, 2012), ebrea olandese uccisa ad Auschwitz e testimone consapevole del destino progressivo di spoliazione del suo popolo, che mi aiuta ad introdurre il senso e il valore pregnante del RICORDARE, vale a dire del RIPORTARE AL CUORE, nel significato etimologico originario, la densità umana incardinata nella Giornata della Memoria e in tutti gli altri giorni dell’anno.
Perché la memoria diventi albero, affondi radici e slanci rami nell’alto, come ali, è necessario calare dentro di noi l’intensità di conoscenza e di sapienza che le testimonianze dei lager, della deportazione, delle leggi razziali ci offrono come un prezioso lascito per sempre. Allora noi stessi ne saremo a nostra volta testimoni autentici.
Ho imparato molto ascoltando negli anni i superstiti sopravvissuti ai campi di sterminio, ebrei e politici, uomini e donne, laici e credenti, italiani e stranieri… L’ho fatto nel corso di viaggi con gli studenti, negli incontri in classe, nelle interviste, nei seminari: le parole dei sopravvissuti, i loro sguardi, le loro emozioni sono ora consegnate ai libri, ai filmati, alle registrazioni che assumono per noi una precisa funzione, quella di restituire volti e persone nella loro dimensione e nella loro storia specifica.
È indispensabile ridare nome alle vittime e spessore umano ai superstiti, calarsi dentro la loro esperienza individuale, scegliendo i testimoni più vicini “al cuore che ricorda”:
· i bambini di Terezin parlano ai bambini con i loro disegni e le loro poesie, colorano il mondo di speranza irriducibile nonostante il “nero latte dell’alba” in cui si svegliano ogni mattina;
· l’adolescente Marcello Martini, deportato a 14 anni come politico, ancora vivente e testimone, comunica con i suoi coetanei nel racconto piano e privo di odio del suo calvario in due lager e nella marcia della morte;
· le ragazze, le donne deportate come politiche e come ebree parlano dal campo di Ravensbruck con una voce di particolare forza, di solidale sentire, di resistente coscienza;
· uomini semplici come l’operaio Quinto Osano, deportato perché scioperava e uomini di cultura come Primo Levi sanno aiutarci a capire la spirale di odio, di propaganda, di dissoluzione che ha travolto le vite loro e delle loro famiglie.
Queste e molte altre storie toccano le nostre emozioni e la nostra sensibilità umana, che è senza dubbio la chiave prima da attivare perché si crei quella pausa di silenzio intimo, di ascolto vero, dentro uno spazio narrativo rispettoso e fedele, che restituisce i nomi, i volti, le parole.
Alla base, in forma chiara e decisa, deve però allinearsi una illustrazione “fredda” delle norme e delle regole che spiegano l’essenza dell’universo concentrazionario: la sua struttura, via via perfezionata fino al modello di maggior produttività che fu Auschwitz, risponde ad una ferrea logica di sfruttamento dell’uomo a tutti i livelli, prima come forza lavoro, poi come materiale di recupero.
Le industrie belliche installate con le loro strutture accanto ai lager utilizzavano mano d’opera a basso costo e sempre rinnovata dai nuovi arrivi dei carri bestiame, permettendo ai gestori dei campi lauti guadagni accantonati in milioni e milioni di marchi, industrie che si chiamavano BMW, Siemens, Miele e molte altre che fecero fortuna, conservata alla memoria nei conti minuziosi che accompagnavano con pignoleria i bilanci dei campi. E la catena della rapina partiva da lontano, dai furti nelle case, dai beni sottratti dalle valigie fino al taglio dei capelli e della pelle tatuata per farne lampade, alle ceneri e alle ossa tritate per farne concime.
Questo va detto e illustrato perché si capisca lo studio a tavolino messo in atto dal sistema nazista in tutta Europa, Italia compresa, attraverso l’alleato Mussolini che con le leggi razziali del ‘38 ha aperto la strada alla violenza e alla persecuzione degli ebrei.
Bisogna leggere ai ragazzi le pagine dei bambini di allora espulsi dalle scuole, ascoltare la lucida testimonianza della senatrice Liliana Segre deportata a 12 anni, per “riportare al cuore” i sentimenti dei piccoli, ignare vittime della discriminazione e del disprezzo.
Ma la lezione più alta che appassiona fino in fondo chi si accosta a questi temi e a queste memorie è l’intensa valenza educativa offerta nella risposta priva di odio, di rancore e rivalsa che scaturisce dai testimoni. Solidarietà, amore per la vita, sofferto ritorno agli affetti si condensano in parole come queste: “NOI siamo i vincitori nella storia perché abbiamo capito subito che, se volevamo resistere, vivere un po’ di più, cosa essenziale era NON ODIARE, mentre loro invece ci odiavano; questa è stata la nostra vittoria. Nessuno ha mai amato la vita come chi è stato nel lager” (Ferruccio Maruffi).
Chiudo con un ricordo personale, tenendo negli occhi un’immagine che voglio condividere: Anna Cherchi, deportata a Ravensbruck a 18 anni, sopravvissuta, di fronte al forno crematorio del campo è capace di sorridere, guardare i giovani che la circondano e ripetere con forza “Ragazzi, ricordate che la vita è bella…”.
* * *