Favolì
Favolà

tre racconti di
Federica Mosca

L'autunno della strega


C'era una volta una piccola città piena di alberi e di belle case colorate. Vi abitavano solo persone felici, tutti si conoscevano e vivevano in armonia. In una casetta in cima alla collina, nel punto più alto del paese, viveva una donna che era rimasta sola con la sua bambina. La donna era una strega, ma i suoi concittadini le volevano bene e la aiutavano perché era buona e usava la magia solo a fin di bene. Il giorno del primo compleanno di sua figlia aveva fatto un incantesimo: le foglie degli alberi nel momento in cui cadevano si trasformavano in farfalle e in un istante l'aria si riempiva di ali gialle, rosse e arancioni che volavano dappertutto. Uomini, donne e bambini, perfino gli animali si fermavano con il naso all'insù a guardare quell'autunno meraviglioso.


Ma un brutto giorno, di ritorno da una passeggiata nel bosco, la donna perse la sua bambina. Per settimane vagò disperata, gridando giorno e notte, chiamandola per nome. Gli amici e i compaesani organizzarono dei gruppi di ricerca, si inoltrarono in tutti i sentieri, controllarono ovunque. Cercarono a lungo dappertutto, ma la piccina era come svanita nel nulla e non tornò. Il cuore della strega che era stato tanto grande, giorno dopo giorno si asciugò fino a rinsecchire come una foglia. Talvolta le persone che passavano lì vicino e la andavano a trovare per farle compagnia lo sentivano scricchiolare piano al centro del suo petto. Tutto il dolore che aveva dentro andò a male e lentamente si trasformò in qualcosa di diverso; come succede alle foglie che marciscono per essere rimaste troppo a lungo nella terra.


A quel punto la donna non sopportava più la felicità degli altri. La bellezza e l'allegria la disturbavano. Dal momento che era sempre scontrosa con tutti, le persone smisero di andarla a trovare e così, rinchiusa nella sua solitudine, sprofondava sempre di più nell'oscurità. Le foglie che cadevano dai rami cominciarono a trasformarsi in enormi falene dalle ali polverose e il cielo si riempì di grigi presagi. La donna, invecchiata prima del tempo, cominciò a rapire uno dopo l'altro tutti i bambini della città. Li attirava a sé con l'inganno e poi li trasformava in uccellini che teneva rinchiusi in una gigantesca voliera.

Quando i genitori non trovarono più i loro figli


piansero così tanto che riempirono di lacrime i fiumi. Il livello dell'acqua si alzò, i fiumi strariparono inondando le strade. Le alghe e i pesci si insinuarono nelle case e nei negozi, finché un giorno il paese fu completamente sommerso. Si vedevano solo i campanili e le torri fuoriuscire dall'acqua. Quell'autunno di pioggia fu umido e lunghissimo. Dopo la terribile alluvione tutti se ne andarono via perché il paese era diventato inospitale. Dove un tempo c'erano state la vita e l'allegria ormai si potevano trovare solo acqua e fango. La casa della strega si salvò dalla catastrofe perché si trovava in alto sulla collina. E lei, che quando era indispensabile si muoveva con una barca, il resto del tempo lo trascorreva a sorvegliare la sua gabbia di uccelli.


Passarono i mesi. Piano piano l'acqua cominciò a ritirarsi; all'inizio era solo un cambiamento impercettibile ma poi si fece più rapido. L'erba prese a ricrescere e di seguito vennero i fiori. Passarono alcuni anni. Un giorno la strega trovò una cagnolina ferita davanti alla porta di casa. Zoppicava molto ed era denutrita e spaventata perché aveva vagato a lungo. La donna, che era stata sola per tanto tempo, nel vedere quella bestiolina che aveva bisogno di attenzioni si intenerì. La fece entrare e si prese cura di lei. Quando si rimise in forze la cagnetta se ne andò. Però non fu un addio: la cannetta di tanto in tanto tornava, e la strega era felice.


Certe volte stava via per qualche ora, in altri casi non tornava per parecchi giorni. Finché una volta tornò per stabilirsi definitivamente portando con sé cinque cuccioli. La casa della strega si riempì di confusione e di rumore. Palle di pelo si rincorrevano saltando e nascondendosi dappertutto. Niente poteva salvarsi dalla loro travolgente vitalità. Non passò molto tempo che i cuccioli, giocando, urtarono la preziosa gabbia della strega. Nel gran trambusto che ne seguì la porta si ruppe e tutti gli uccelli uscirono veloci. Un rapido frullio d'ali si riversò tra le stanze e in un attimo essi presero il volo dileguandosi attraverso le finestre. La strega, d'altronde, non si ricordava


nemmeno per quale motivo il fatto di tenerli rinchiusi le aveva dato sollievo, e così li lasciò andare. Centinaia di uccelli impazziti di gioia danzarono nel cielo della città fino a sera, a quel punto disegnarono una linea lunga e diritta sotto la luna e volarono via. Si fermarono solo quando raggiunsero le loro famiglie. Entrarono nelle case dei loro genitori e dei fratelli che non avevano ancora conosciuto e vi trovarono ospitalità. Quel periodo tutti furono lieti.

In apparenza non era cambiato nulla perché gli adulti non potevano sapere che quegli uccelli erano in realtà i loro bambini.


Eppure quelle melodie raccontavano una storia che andava oltre il canto, che fu ascoltata e che risvegliò qualcosa nel profondo delle persone. Gli uccellini erano liberi e tutti i pomeriggi si riunivano al tramonto in un grande albero perché nel tempo che avevano trascorso presso la donna erano diventati amici inseparabili. Amavano dormire vicini, attaccati l'uno all'altro formando un grande ammasso di piume, per poi risvegliarsi cantando un momento prima che le luci dell'aurora svegliassero il cielo.

La strega continuò a vivere sentendo che qualcosa si era allentato dentro di lei,


come se la mano invisibile che le stringeva il cuore si fosse dissolta; i cuccioli crebbero e dopo di quelli ce ne furono degli altri. Lentamente la città che era stata sommersa si ripopolò. Giunsero da fuori molte persone, si formarono nuove coppie e nacquero altri bambini. Finalmente, all'alba di una mattina qualunque gli uccelli si risvegliarono abbracciati ai rami del grande albero, un po' come facevano tutti i giorni, ma questa volta con il vecchio aspetto. Erano tornati ad essere quello che erano prima dell'incantesimo: bambini e bambine. La vita riprese, per quello che era possibile, come se niente fosse mai successo. La trasformazione fu miracolosa. E allora tutti seppero che qualcosa, lontano da lì, nella città o nel cuore della strega


era cambiato, e che il lunghissimo autunno di pioggia che li aveva travolti era terminato. Qualcuno ipotizzò che la strega fosse improvvisamente morta portando con sé i suoi malefici. Altre voci raccontarono invece di una bambina che anni prima si era smarrita in un bosco ed era stata trovata da una coppia di cercatori di funghi ammutolita, tremante di freddo e di paura. Sconvolta dallo spavento la bambina si era allontanata e nascosta rannicchiandosi dietro il tronco di un albero caduto. L'avevano raccolta proprio come si raccoglie un cucciolo randagio e portata con sé. In un secondo momento l'avevano adottata. Ma la bambina, pur essendo molto piccola, non aveva mai dimenticato la sua prima mamma.


Una volta cresciuta aveva chiesto di essere riaccompagnata nel luogo dove si era persa per poterla cercare e riabbracciare. In fondo si trattava solo di supposizioni. Nessuno seppe mai che cosa fosse realmente accaduto.

Luna in rima



Una formichina dall'aria altezzosa disse un giorno al papà “ah che vita noiosa!”. Il papà la trovò un po’esagerata e disse “so io come tenerti occupata, dopo la scuola potresti cercare le briciole di pane che dovremo mangiare”. La giovane formica alzò le spalle, “mamma, papà, io vi voglio bene, ma non credo che si possa vivere ancora insieme; ho grandi progetti e numerosi amici, mi si aprono davanti giorni più felici”.
I genitori fecero un gran un baccano, ma la situazione ormai gli era sfuggita di mano e così la formica lasciò la sua famiglia dopo l'ennesimo parapiglia.


Ecco giunta finalmente l’occasione di ritrovarsi insieme sotto al lampione. Perché la formica, un ragno, un fiore e un bambino si son dati appuntamento in fondo al giardino.
Insieme partiranno per un viaggio con il quale dimostrare tutto il loro coraggio! Ma cammina cammina a spasso nel mondo, nel grande giardino sopraggiunse il tramonto.
E fu così che la formica vagabonda si ritrovò per la prima volta fuori a notte fonda. Mentre il ragno, il fiore e il bambino si apprestavano a dividere un panino, la formica provava un strana sensazione che complicò tutta la situazione...


La notte era scura, dolce e profumata, lassù c'era la luna… pareva disegnata. Sdraiata sulla foglia non riusciva a non sognare… è bastato così poco a farla innamorare!
Disse il fiore il giorno dopo: “credimi, sembrerò scortese, ma dovresti abbassare le pretese. Lei è distante, bianca, un po' annoiata e di certo una formica non l'ha mai considerata. Ciononostante ormai siamo sulla strada e resteremo insieme comunque vada”. Il ragno che era lì in ascolto si accarezzò subito il pelo folto: “se quello che odo non è solo un sogno, presto di me avrete bisogno. Un lunghissimo filo proverò a fabbricare e con quello sulla luna ci potremo arrampicare”. Ricominciò quindi la camminata tra un sospiro e l’altro della formica innamorata.


E anche il bambino tra un passo e uno scherzetto venne informato del nuovo progetto. “Piccola amica” esclamò il bambino pulendosi gli occhiali, “ti vediamo penare, per questo ci sentiamo di volerti aiutare. Il piano è ardito ma forse può funzionare se tutti e quattro insieme ci mettiamo a lavorare. Prenderemo il treno della fantasia che ci porterà nel punto dell'arcobaleno più alto che ci sia, sulla tela ci arrampicheremo salendo in un istante o forse meno. C’è però un problema che mi viene in mente da risolvere subito oppure non se ne fa niente. La luna è bella e vanitosa, non certo una tra le tante, occorre che qualcuno la faccia sentire importante. Così il fiore, il ragno, la formica e il bambino provano a scrivere il loro destino.


Giungono davanti ad un esercizio e vi si infilano dentro a precipizio... mentre il bambino distrae il circondario, il ragno spaventa il proprietario. Lesta la formica grazie al baccano ruba tutto l'oro che è a portata di mano. Mamma mia che trambusto, chissà se tra tanti fili d'oro si nasconde anche quello giusto? Una bella collana le vogliono regalare, la luna a bocca aperta dovrà restare! La formica ha scelto il suo gioiello preferito e tiene il pacchetto appeso sul suo dito. La luna, pensa, non lo potrà rifiutare, o almeno il dono dovrà scartare. Tra una chiacchiera e un gesto sereno ecco comparire nel cielo l'arcobaleno! Si salpa con il treno della fantasia, il mezzo più strampalato che ci sia. Che meraviglia guardando fuori, sembra un incendio di colori.


I quattro personaggi scendono piano sempre tenendosi per la mano e si ritrovano in mezzo al niente avvenimento che non capita di frequente. Restano da soli in quel nero manto, sopra una notte che è un vero incanto. Notte silenziosa in cui lei sembra davvero preziosa, mentre pende sullo spazio siderale come un'enorme palla di Natale. “bella sei bella, luna, davvero” esclama la formica “chissà se tra poco potrò svelare il tuo mistero?”. “Presto lasciatemi concentrare”, sussurra il ragno, “una lunghissima tela sto per filare”. Lunga sottile ma resistente si muove leggera in mezzo alla corrente. Ora la raddrizzano e salgono su, un passo dopo l'altro fino a non poterne più. “La strada è lunga e non so se ne varrà la pena”, esclama il bambino, “mi è già scoppiato un terribile mal di schiena!”.


Stanchi ormai e con gli occhi pesanti finalmente se la trovano davanti. Se ne sta là pallida e annoiata, non sembra una tipa che si presti ad una chiacchierata! “Ormai ci siamo”, dice il fiore viola, “trova il coraggio di dirle quello che cerchiamo”. “Buonasera luna cara permettimi di presentarmi, e la mia storia di raccontarti. Ogni sera ti vedo e non sto più nella pelle, senza dubbio meravigliosa, unica tra le infinite stelle…” dice esitante la formica. Risponde seccata la luna: “eccone un altro che viene a disturbarmi sapendo che da qui non posso allontanarmi! Orsù piccola formica, giungi presto al punto, e senza pensare che nasconderò il disappunto”. “in verità ti ho portato un piccolo omaggio, un delicato pensiero che ha motivato il nostro viaggio”.


“Dai qua allora, fammi vedere se è qualcosa che valga la pena di possedere. Scarta la luna in tutta fretta, sembra curiosa come una bimbetta. Mentre apre il pacchetto arrossisce un istante, poi ci ripensa e torna distante. Gelida e spietata deve essersi dimenticata se mai qualche volta si è innamorata. Certo è finita in modo penoso, gli toccherà tornarsene a ritroso. E la formica?...crolla il suo sogno come un castello perché lei gli ha spaccato il cuore con un martello. La luna si volta e sbuffa scontrosa, ma il soffio di luna è una tempesta impetuosa. Così i quattro travolti dal vento precipitano giù e si salvano a stento. Si sistema i capelli e si aggiusta la sottana, poi li guarda cadere e lancia anche la collana.


Finisce il loro volo in mare aperto, salato come la sabbia del deserto. Nuota e nuota vanno alla deriva, finché da quelle parti una nave arriva. Si arrampicano veloci all'oscuro dell'equipaggio, pronti per affrontare un nuovo viaggio. Anche la collana finisce nel mare, dove resta sospesa a galleggiare. E così anche se è passato tanto tempo, talvolta si verifica un fenomeno che è un vero portento. Seduti certe sere in riva al mare, un filo d’oro sull'acqua si può ammirare.

Piccolo fiore


Piccolo fiore era una bella margherita di due anni. Viveva con i suoi genitori e la sua sorellina appena nata, andava a scuola ed aveva tanti amici con cui giocare. Gli piaceva ascoltare la musica, ballare e fare il girotondo insieme alle primule. A scuola si divertiva a leggere le storie di conigli con le violette o a giocare a far finta con i ciclamini. La notte dormiva sognando il suo enorme gatto tigrato. Insomma… faceva tutto quello che fanno di solito i fiori di due anni di tutto il mondo!

A volte piccolo fiore correva a perdifiato nel prato e quando aveva corso tanto


da non poterne più si lasciava cadere indietro sdraiato a pancia in su. Il cuore gli galoppava forte nel petto. Il vento fresco gli accarezzava la faccia. Lui socchiudeva gli occhi per guardare i pezzettini di cielo che inseguivano le nuvole.

Era un fiore felice.

Una mattina d'estate come tante altre andò al parco con la mamma e la sorellina. Si sentiva forte come se potesse fare qualsiasi cosa: arrampicarsi senza aiuto sulla scala più alta. Superare il ponte mobile correndo senza aggrapparsi. Buttarsi giù dagli scivoli senza paura.


Non si sentiva un fiore piccolo. Si sentiva grande… grande così. Ma una volta salito sui giochi si accorse che c'era qualcosa di diverso. Non trovò i soliti amici. Al posto loro c'erano solo fiori scortesi. Uno gli pestò le manine mentre cercava di arrampicarsi. Un altro tentò un approccio maldestro portandogli via il suo gioco e poi gli disse: “non sai giocare a niente, non sei neanche capace di parlare”. Il fiore più grande di tutti aspettò che salisse sulla nave dei pirati e quando piccolo fiore cercò di avvicinarsi per girare il timone lo spinse forte e gli disse: “vai via”. Piccolo fiore perse l'equilibrio sbattendo la testa e pianse tanto, più per l'offesa che per il dolore.


Per la prima volta da quando era nato, piccolo fiore si era sentito rifiutato. La mamma che era lì lo consolò e insieme tornarono a casa. Da quel giorno qualcosa cambiò in lui. Ogni tanto faceva dei brutti sogni, la mamma lo sentiva piangere mentre dormiva e ripetere urlando“vai via”. Quando al parco incontrava gli altri fiori non era più tanto fiducioso. Non sempre si avvicinava. Spesso rimaneva in disparte a studiare la situazione. A volte cominciava a salire sulla rete ma se vedeva che c'erano dei fiori più grandi di lui si fermava o tornava indietro. Certo le rose erano alte e belle, con il loro gambo lungo e i loro petali profumati, ma nascondevano sempre qualche spina!


Fiorellino adesso si sentiva spesso solo. Ma era ancora talmente piccolo che non lo sapeva spiegare con le parole.

Finché un bel giorno mentre si stava lavando i denti si guardò bene allo specchio e notò qualcosa di diverso: era alto, pieno di muscoli, con i denti aguzzi e con un aspetto a dir poco spaventoso! Piccolo fiore si era trasformato in una terribile pianta carnivora. Naturalmente non vedeva l'ora di uscire e di mettersi alla prova con il suo nuovo aspetto. Non passò molto tempo che la mamma gli disse: “piccolo fiore vieni, proviamo a fare la pipì nel vasino”, e lui rispose gridando: “no, basta bleà, schifo, vasino voglio no, basta chiuso”.


E un'altra serie di suoni e parole incomprensibili pronunciate lanciando i giochi dappertutto e dando i pugni per terra.

A scuola gli amici si stupirono del suo nuovo aspetto. Lo guardavano un po' curiosi e un po' intimoriti. Pensò “non fa niente, io sono la pianta più forte di tutte” e appena ne ebbe l'occasione si mise subito al lavoro. Strappò un libro dalle mani della sua amica Violetta. Subito dopo il libro non gli interessava più e lo buttò per terra. Quando fu il momento di uscire a giocare in giardino prese tutti a spallate correndo per arrivare primo e poi spinse Mino giù dall'altalena perché ci voleva andare lui.


Solo e seduto sul trono era soddisfatto di se stesso: “Finalmente faccio quello che voglio!” Così preso da se stesso piccolo fiore non vide che Viola si era rannicchiata in disparte e piangeva dispiaciuta perché avrebbe voluto leggere il libro insieme a lui. Mino invece cadendo dall'altalena si era sbucciato un ginocchio; ora era in braccio alla maestra e le raccontava con i lacrimoni agli occhi: “ È stato piccolo fiore e sono sicuro che ci ha fatto apposta”. Poco dopo mentre era fermo in mezzo al prato con le gambe larghe, i pugni chiusi e lo sguardo deciso un gruppo di fiori lo chiamò “dai piccolo fiore vieni a fare il girotondo con noi”. Lui si avvicinò mettendo le mani sui fianchi... “Pfu, è un gioco da piccoli, io posso fare dei giochi da grande molto più divertenti”.


I suoi amici rimasero a guardarlo confusi. Allora si accorse che poco più distante c'era il gruppo delle rose. Si avvicinò, certo erano alte. Ma non tanto più alte di lui. “Che pianta sei amico? mi ricordi qualcuno, ma non ti riconosco.” Gli chiese la più grande di tutte. Stava quasi per cominciare a tremare quando si ricordò che era una pianta carnivora ora: “sono piccolo fiore”, disse sicuro. “Questa è bella..ah ah, ti chiami come quel poveretto che schiaccio tutte le volte che lo incontro”. Gli diede una gran pacca sulle spalle e disse “dai vieni con noi a fare qualche brutta cosa, non fa niente per il nome tanto io non sono una che si mette a chiamare la gente per nome, quel che conta sono i fatti!”. E allora via tutto il pomeriggio a darsi da fare a tirare la coda ai gatti,


pungere le dita delle vecchiette, lanciare i sassi per aria, correre dietro alle papere, spingere, mordere, dare schiaffi. Una giornata Molto impegnativa. Alla fine Piccolo fiore corse a casa e cominciò un'altra guerra. Non mangiò la pappa perché era verde... “Voglio la pappa bianca, non mangio le verdure”. “Ma come...ti sono sempre piaciute le verdure!” sospirò la mamma. “No, non piace, basta chiuso” disse piccolo fiore. Poi corse dietro al gatto che offeso andò a nascondersi sotto al letto. E dopo fu la volta di sua sorella... le tolse una bambola e poi la lanciò per aria. Infine urlò correndo per tutta la casa quando il papà cercò di portarlo a letto e mentre lo teneva in braccio scalciava con tutte le forze:


“Non voglio andare dormire, non voglio andare letto, io grande”. Una serata molto impegnativa che terminò solo quando si addormentò per lo sfinimento sul divano con mamma e papà arrabbiati ed estenuati.
Il giorno dopo piccolo fiore si svegliò di buon mattino. Guardò i muscoli... erano ancora allo stesso posto. “Bene!”, pensò. Dalle tapparelle entrava a strisce la luce del sole. Sentiva la voce della mamma che preparava la colazione. Voleva tanto essere felice... ma forse doveva essere ancora un po' forte e scontroso. Cominciò facendo l'espressione da duro mentre scendeva dal letto. Il gatto lo guardava da lontano pronto a scappare. Sua sorella si allontanò gattonando perché non voleva giocare con lui.


Si preannunciava un'altra buona giornata...
“Io grande” disse alla mamma mentre gli dava un bacio e lo accompagnava dentro alla scuola. Comportati bene gli disse la mamma: “devi essere forte, ma gentile!”. Una volta rimasto da solo piccolo fiore, grande e muscoloso, con la sua macchinina in mano, rimase per un po' fermo in disparte a guardare la situazione. Alcuni fiori erano seduti vicini ad ascoltare un libro. Altri si divertivano a colorare e a giocare con le bambole. Viola, Mino e Rania stavano facendo un girotondo vicino alla finestra. Lo guardavano intimoriti ed erano ancora un po' offesi con lui. Nessuno dei tanti lo invitò a giocare. Piccolo fiore senza la compagnia dei suoi amici si sentiva ancora più solo. Più in là c'erano anche le rose. Alte, belle e giorno dopo giorno sempre più dispettose.


Stavano strappando i disegni di altri fiori dicendo a voce alta “guarda che schifo di disegno hai fatto!”. Poi toglievano tutti i tappi ai colori e rovesciavano i bidoni della spazzatura. Ad un certo punto la rosa più grande di tutte si girò verso di lui e disse: “dai margherita vieni anche tu a darci una mano, ci sono molte brutte cose da fare oggi”. Piccolo fiore rimase in disparte ancora indeciso. Era bello sentirsi forti, ma che fatica dover fare a tutti i costi i prepotenti in continuazione. “Forte e gentile” aveva detto la mamma.

“Non voglio essere come voi, non siete poi così grandi e forti come pensate e i vostri giochi sempre uguali dopo un po' diventano noiosi!” disse Piccolo fiore alle rose che lo guardavano con grandi occhi stupiti


Si avvicinò ai suoi amici. Li osservava silenzioso perché non sapeva come rompere il ghiaccio. Allora Mino disse agli altri due: “guardate, Piccolo fiore è tornato quello di sempre, non ha più lo sguardo scuro scuro”. E sorridendo Piccolo fiore disse: “posso venire a giocare con voi?”.



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