Calviniano (agg.): che si ispira all'opera di Italo Calvino
Calvinista (agg. e sost.): seguace della severa opera di riforma di Giovanni Calvino
La leggerezza calviniana è una delle qualità delle Lezioni americane. Nominarla fa fare bella figura.
La leggerezza calvinista è invece un ossimoro: nominarla con nonchalance incute rispetto nell'interlocutore.
Kafkiano (agg.): relativo a Franz Kafka e alla sua opera: per estensione, qualcosa di inquietante, allucinante o semplicemente assurdo. Per la precisione, Kafka è stato uno scrittore austro-ungarico di lingua tedesca; l'aggettivo "kafkiano" e in particolare l'espressione "situazione kafkiana" sono invece squisitamente italiani.
Il che non è assurdo o allucinante, ma un po' inquietante sì.
Cento anni di Dada: il 5 febbraio 1916 viene aperto a Zurigo il Cabaret Voltaire; è considerata la data di nascita ufficiale del dadaismo.
"Dada non significa nulla"
(Tristan Tzara, Manifesto del Dadaismo)
Leopardiano (agg.): relativo a Giacomo Leopardi, indica anche uno stato d'animo tendenzialmente introspettivo e riflessivo
Leopardato (agg.): tessuto o tema che riprende il mantello maculato del leopardo
Non si danno molti casi di oggetti o persone contemporaneamente leopardiani e leopardati.
Metrica (sost.): La scienza che studia le gabbie su cui si costruisce l'architettura del ritmo nella poesia.
Quando un verso scappa dalle gabbie della metrica si dice "verso libero".
Fumetto (s. m.): Linguaggio che interseca codici visivo e testuale per creare effetti di temporalità. Un'intersezione e uno scambio che diventa evidente quando si va a vedere come si dica fumetto nelle varie lingue: in italiano prende il nome dal balloon, il "piccolo fumo" con cui si esprimono pensieri e parole pronunciate dai personaggi; in francese è invece "bande dessinée", striscia disegnata, mettendo al centro la consecuzione delle immagini; in inglese (e quindi in tedesco) è comics, a sottolineare una predisposizione al comico, mentre in giapponese è manga ("immagini derisorie"); in spagnolo è "historieta" a evidenziare la centralità della storia sull'immagine.
Per notare quante prospettive abbia una parola, a volte occorre guardarla con gli sguardi di un'altra lingua.
Carnascialesco, canto: Genere musicale e poetico in voga a Firenze ai tempi di Lorenzo il Magnifico, cui solitamente se ne attribuisce la paternità. È parente stretto dei carri e dei trionfi, delle ballate e delle barzellette, delle zirudelle emiliane e di molte poesie d'occasione pensate per la piazza e per la condivisione cantata e camminante, ad accompagnare la festa (del Carnevale, in questo caso: buon martedì grasso!).
Libro (s.m.): In un tronco d'albero, il libro è l'anello che si trova subito sotto la corteccia e che a sua volta avvolge il cambio.
In tutte le lingue indoeuropee il libro e le parole a esso collegate derivano dagli alberi (in particolare dai faggi: così in inglese, tedesco e nelle lingue slave). Il libro è anche una cosa viva: che cresce, mette radici e produce semi.
E, vale la pena sottolinearlo, si trova sotto la dura corteccia e favorisce proteggendola la crescita del cambio.
Dantesco (agg.): relativo a Dante; in italiano l'aggettivo si usa per indicare propriamente l'opera del poeta, mentre in altre lingue è passato a indicare qualcosa di particolarmente feroce e terribile, in particolare in espressioni come "Dantesque inferno".
Grazie a questo salto linguistico e concettuale, "dantesco" è aggettivo uscito dall'alveo puramente letterario e (all'estero) è possibile trovare anche brani heavy metal ispirati al sommo.
Titolo (s.m.): Dal latino ‘titulus’, che indicava un'iscrizione su una statua o monumento, l'espressione è passata nel tempo a indicare cose le più diverse: il nome di un libro o di un'opera, ma anche i titoli nobiliari, i titoli di stato, i titoli di studio e quelli onorifici, i titoli sportivi e quelli chimici, quelli di coda e quelli di testa...
Il titolo è un nome, quando l'azione di dare nome dà importanza, quando non sono i nomi a essere conseguenza delle cose, ma le cose a contare grazie al loro nome.
È la forza creativa della scrittura - che nomina, crea e riconosce.
Silenzio (s.m.): Parola paradossale per sua natura, indica la mancanza di suono: non è possibile dire il silenzio, perché il silenzio avviene quando non lo si dice; quando si impone, il silenzio ha un cattivo sapore ("state zitti!" o il gioco del silenzio).
Semplicemente, ci sono cose che con le parole non si possono dire: le parole ci aiutano a volte a riconoscere un'esperienza che abbiamo già fatto, e a considerarne il valore.
Il valore del silenzio nella lingua e nella letteratura è grandissimo: è tramite il silenzio che la poesia genera ritmo, è nel non detto (il tacere qualcosa, nelle molte sfumature possibili di questa strategia comunicativa) che la prosa evoca i meccanismi del senso e le complicità.
Anche in un festival della canzone, per arrivare all'estremo, il silenzio ha un valore incredibile. Anche a ridosso di una festa degli innamorati, perfino.
Didatticamente e in aula, il silenzio si può e si deve costruire: come attenzione, come risorsa, come metodo. Come il senso, non è dato, ma si insegue e si fa insieme.
E non dico altro.
Galeotto, saffico, platonico, sadico, masochista, romantico... (agg.): L'amore trae molti aggettivi dalla letteratura: perché nelle parole troviamo noi stessi e con le parole diamo nome a ciò che ci capita e che ancora ci è sconosciuto, con le parole siamo nel mondo e diamo forma a ciò che siamo; perché la buona letteratura, come l'amore, ha più facce e non una sola - l'amore "naturale" o "tradizionale" semplicemente non esiste, e molti sono i modi di amarsi.
L'amore trae pochi aggettivi fuori dalla letteratura: leggere fa bene all'amore. Leggere libri, non Facebook, già che siamo qui. L'unico aggettivo che questo luogo ha aggiunto alla nostra concezione dell'amore è "complicato".
L'amore ha bisogno di aggettivi, perché quando capita di amare cerchiamo davvero di capirci, e vogliamo capire: l'aggettivo aiuta, e la letteratura pure. La letteratura ha un cuore e vien voglia di guardarlo.
Bello (agg.): Attributo che indica il grande valore estetico che ha qualcosa, o più spesso il valore estetico che _per noi_ ha qualcosa (Non è bello ciò che è bello, ma che è bello che è bello che è bello, diceva Nino Frassica).
Aggettivo tabù nella critica e nella letteratura (a differenza di "nuovo" o "importante"), e perfino nella scuola (che si vuole "buona") è invece centrale nella fruizione personale di storie e poesie (bello, bellissimo, bellino, più bello...).
La scuola dovrebbe esplorare il bello, partendo proprio dalla percezione immediata della bellezza di un testo, e invece spesso il bello lo evita, dando spazio alle parafrasi o alle regole metriche o narratologiche: una qualsiasi didattica centrata sul bello parte invece dal valore personale, dalla propria esperienza individuale, per cercare risposte più ampie.
È bello ciò che ci fa star bene: coglierlo, riconoscerlo, cercarlo, è un insegnamento che può durare molto, e produrre libertà.
Favoloso, mitico, epico, leggendario (agg.): Nel linguaggio quotidiano attingiamo ai generi letterari per indicare qualcosa di straordinario, per sottolineare una sospensione della realtà; cosa che facciamo, con minore enfasi, con gli aggettivi "romanzesco" o "fiabesco".
La letteratura riesce a indicarci un livello di realtà ulteriore, cui attingere per essere ciò che siamo e ciò che vogliamo essere.
Testo (s.m.): Un insieme coerente di segni, volta a comunicare qualcosa. Si parla di testo anche in opposizione al "flusso" e al "processo", perché al testo si può tornare per confrontarsi con esso, per studiarlo, per condividerlo, per tramandarlo.
La parola testo viene dal latino 'textus', tessuto (così anche in molte altre lingue): stessa origine hanno altri termini come "intreccio", "trama", "plot".
Intertestuale e ipertestuale, parole tipiche della multimedialità, non fanno quindi che intrecciare intrecci.
Ogni testo (non solo letterario) intreccia cose diverse, voci diverse, e segni diversi (parole, per esempio). In questo senso, lo scrittore è un tessitore di parole: sempre, la scrittura ci permette di tessere e fare incontrare persone diverse. È un bene prezioso.
Quando analizziamo un testo ha e non ha senso cercare i singoli fili di cui è intessuto: la parola stessa ci suggerisce di guardare all'intreccio, al motivo che emerge, a come si può nuovamente intrecciare.
Dorso (s.m.): Parte del libro, detta anche 'costa', su cui si riportano le indicazioni che consentono di trovarlo rapidamente quando sta in una libreria. Così come il dorso (o la schiena) ha una spina dorsale che sostiene l'intero scheletro, il dorso svolge la stessa funzione nel libro, quella di sostenerne pagine e copertina: inoltre, quando le pagine si leggono, il dorso si trova dall'altra parte, come è naturale per un dorso.
Probabilmente anche 'costa' o costola richiama la stessa idea di un libro che cresce intorno a un suo scheletro fisico; i libri sono comunque ricchi di termini anatomici: l'unghia per afferrare la coperta, i nervi che si trovano sul dorso, il piede di pagina, l'indice e volendo anche l'occhiello (o occhietto) e il fronte (o frontespizio), e le alette (per angeli di qualsiasi sesso).
Il libro ha una sua fisicità, un suo peso, un suo essere "cosa" del mondo anche quando lo riteniamo puramente portatore di idee. Le pagine possono "scompaginarsi", le copertine "scopertinarsi", e così via. Utile ricordarselo quando si deve disegnare un libro, o pensare a una campagna di promozione della lettura: come si cavalca un libro? Come ci si entra dentro? Cosa mangia un libro? E come?
Trattato (s.m.): Voce del verbo trattare, grazie alle ambiguità della lingua può indicare sia uno studio su una materia (ivi trattata) sia un accordo di grande portata su qualcosa (ivi trattato).
Usato come aggettivo, si contrappone a "naturale": un piano di legno può essere "trattato", un limone può essere "trattato".
Possiamo quindi immaginare dei trattati "naturali", cioè non sottoposti a duro editing e lavorazione editoriale; e dei "trattati trattati".
La cosa è dura da digerire: infatti andrebbe legiferata. Si stanno aspettando ancora i "trattati sui trattati trattati". Ce ne vorranno, a occhio, trentatré.
I trentatré trattati sui trattati trattati non li si aspetta sempre, eh.
Solamente a tratti.
Virgola (s.f.): Segno di interpunzione che viene solitamente presentato come "breve pausa", e che quindi verrebbe ad aver senso solo accanto al punto, "lunga pausa".
Le virgole arrivano tardi nel processo di materializzazione della lingua che porta alla scrittura: ma da quando ci sono, non le manda più via nessuno.
Una virgola non è solo una pausa: è qualcosa che dà senso (e aiuta a cogliere il senso di certe espressioni), è a volte puramente decorativa ("punto, punto e virgola, virgola, abbondiamo" - Totò citato a memoria), è a volte segnale stradale (quando indica una svolta nel discorso), a volte trampolino di lancio di una riflessione finale.
Le virgolette sono parenti della virgola ma non le assomigliano per niente: a esse corrisponde un cambio del tono di voce, e possono essere mimate per irritare l'ascoltatore, muovendo entrambe le coppie di indice e medio a significare "tra virgolette". Le virgolette sono fastidiose come zanzare, perché sottolineano qualcosa che chi scrive (o parla mimando) sa e presuppone l'altro non sappia.
Le virgolette cambiano di paese in paese, seguendo la regola internazionale per cui in ogni lingua è bene dare fastidio in modo diverso.
Premessa (s.f.): Uno dei tanti testi che si trovano prima del testo: a differenza dell'introduzione, della prefazione o del prologo, "premessa" è parola usata anche nel parlare quotidiano.
Si fa una premessa quando si vuole dire qualcosa, e attirare l'attenzione dell'uditorio.
Le premesse (come tutta la letteratura) sono menzognere e veritiere al tempo stesso: possono giurare e spergiurare che un certo testo sia un antico manoscritto seicentesco (certo, Alessandro, premettiamolo) o che sia stato tradotto dall'arabo (Miguel, parliamone: perché Don Chisciotte è stato raccontato da un arabo? Cosa vuoi dirmi?).
La premessa più menzognera di tutte sembra il titolo di un'autobiografia: "Sarò breve".
Italiano (s.m.): Intesa come lingua: l'italiano. Lingua nazionale, lingua letteraria, lingua televisiva e radiofonica che ha soppiantato i dialetti. L'italiano, intesa come lingua, nasce prima degli italiani: stando puramente al dato anagrafico, è più matura.
Come lingua, l'italiano ha sempre preso (e restituito) ai tanti dialetti che l'han nutrito: è una lingua mutevole, accogliente, variegata. Più di quanto dica la grammatica, che di una lingua è la parente solitaria e un po' orsa.
L'italiano, sempre inteso come lingua, è apprezzato all'estero, ha saputo trovare parole per tante cose, ha dato forma a opere e generi letterari.
L'italiano lo sappiamo per immersione, come ogni madrelingua di una lingua viva: ma viverlo e capirlo in tutte le sue trasformazioni ci restituisce un'idea di noi che, via, non è brutta. Ha sempre detto e dato tanto, all'inglese e al francese, al tedesco e allo spagnolo: sempre come lingua, che altrimenti pare una barzelletta.
Aggettivo (s.m.): La maggior parte dei paradossi linguistici, e delle apparenti contraddizioni della conoscenza attraverso la parola e il racconto, sta nel fatto che una parola esista contemporaneamente a più livelli.
Una parola nuova può indicare un concetto vintage, una brevissima esprimere un'idea lunga, e "aggettivo" può essere un sostantivo quando parla di sé, e pure definire un attributo.
E tutto esiste contemporaneamente: perché quando impariamo attraverso la parola e il racconto non seguiamo delle istruzioni, ma riviviamo quello che ci viene detto; e tutti noi siamo fatti di più livelli, di apparenti contraddizioni, di conoscenza.
La letteratura è una scienza dell'ascolto, e dell'integrità nella complessità.
Petaloso (agg.): Nel gennaio 2016 Matteo, giovane studente di una classe terza della scuola primaria di Copparo (FE), conia una nuova parola, "petaloso", a indicare l'abbondanza di petali (una margherita è più petalosa di un papavero); la maestra apprezza l'invenzione e scrive all'Accademia della Crusca che il 16 febbraio risponde al ragazzo affermando che è una bella parola (cioè funziona bene).
Dice anche l'Accademia della Crusca che una parola perché possa entrare nel vocabolario deve entrare anche nell'uso: e ieri e oggi c'è stato un fiorire molto petaloso di presenze social della nuova parola di Matteo.
La Crusca consiglia anche la lettura di un libro, molto bello, che racconta la nascita di una parola: è Drilla, di Andrew Clemens, tradotto per Rizzoli da Serena Piazza. È un bel consiglio, che chiude anche il cerchio tra lingua parlata e invenzione letteraria.
Le parole fioriscono, nascono, spariscono: non si possono imporre ma si possono scegliere nel nostro parlare quotidiano; è una scelta pubblica (a volte anche politica), e una lingua è sempre privata e pubblica: è il nostro modo di stare al mondo e di esserne protagonisti.
La vita (di una parola, di una persona) è fatta anche di passi di ballo sul ritmo del mondo: la lingua è una cosa viva, e le persone lo sono pure quando con la lingua creano e non si limitano a ripetere. Quando si fan travolgere dalla bellezza. Quando sono petalose? Sì, forse anche questo.
PS: La maestra si chiama Margherita.
Like (s.m.): Dal verbo inglese "to like", 'piacere', il "like" usato come sostantivo indica, nei social, il gradimento del pubblico: in questo senso vale in molti casi come un rafforzamento delle visualizzazioni o della diffusione. È una delle forme del cosiddetto 'engagement', cioè una specie di partecipazione di chi legge a ciò che viene detto.
Il like ha anche una sua icona, un pollicione alzato che è anche uno dei simboli di Facebook. Dal 24 febbraio, in Italia, i like si sono moltiplicati in una serie di segni aggiuntivi.
Quanto vale un like? In un'economia come quella del web, vale tanto: è un modo per misurare comportamenti e gradimenti impalpabili. Nell'educazione e nella vita quotidiana, il like non vale niente: vuole dire "mi piace", mi ci ritrovo, ma fa leva solo sull'accumulo di preferenze, e non aiuta a costruire un'autentica educazione al gusto.
Like, in inglese, vuol dire anche "come": da lì viene il verbo. Mi piace, etimologicamente, perché è come me, perché mi assomiglia. Se vogliamo capire qualcosa di più di questi due soggetti (il me cui piace qualcosa, il qualcosa che mi piace), dobbiamo partire dal bello, da ciò che troviamo bello, e andare oltre: nel meccanismo pigro del social "andare oltre" significa "passare ad altro". Invece dovremmo restare: andare oltre e in profondità.
Carta (s.f.): Materiale rivoluzionario su cui scrivere e stampare, poi passato a un'altra serie di usi (incartare, avvolgere, piegare, giocarci, scartavetrare, pulire...).
La storia della carta è lunga ed emozionante, e non è ancora finita: la scrittura e la lettura non sarebbero le stesse senza la carta. Per carità, si scrive (e si legge) dappertutto: sui muri, sui banchi, sui gessi altrui, sui polsini (almeno, così Charlie Chaplin in una memorabile scena), al computer e al telefono. Pure, non è la stessa cosa.
Scrivere è anche un gesto, una pratica, ha una dimensione materiale che non prescinde dal lavoro della mano (carta, etimologicamente, viene dal latino 'charta' che a sua volta è parente del greco 'karasso', incidere). Non lo dico (scrivo) per nostalgia, ma per mantenere un contatto con la dimensione corporea della scrittura e della lettura: dimensione da non dimenticare, da coltivare.
Carta è sinonimo anche di documento (in tanti modi: carta bianca, le carte, il pezzo di carta, gli incartamenti). Scrivere è anche questo: desiderare per le nostre parole un tempo più lungo; leggere è anche questo, allungare il tempo di persistenza di una parola, tornarci sopra, memorizzare, costruire qualcosa che non sappiamo quasi mai cosa è.
La carta è una macchina del tempo, a disposizione di tutti.
Emozione (s.f.): Un moto dell'animo; in latino non c'è una parola ma un'espressione per indicare l'emozione che è per l'appunto 'motus animae'. La parola che usiamo adesso, in molte lingue, viene dal tardo latino ex-moveo, muovo da, sgorgo.
Curiosamente, da quel moto dell'animo derivano anche gli 'stati' d'animo, che non si muovono affatto, stanno fermi. Le emozioni sono qualcosa che si muove (e che smuove) e che sta fermo, qualcosa che ci spinge e qualcosa che attraversiamo.
La letteratura e la poesia lavorano sulle emozioni: attraverso l'immedesimazione creano un'occasione naturale di didattica delle emozioni. Quando leggiamo riviviamo le emozioni di chi scrive (o del personaggio raccontato), e le facciamo nostre: provarle significa comprenderle, riconoscerle, accettarle, conviverci.
Le emozioni hanno dei nomi, e in un film come Inside Out hanno anche dei volti. La loro descrizione più efficace si trova però nella letteratura e nella poesia. Lì smettono di essere qualcosa da arginare o combattere e tornano a essere l'espressione vitale del nostro animo, o anima.
Bufala (s.f.): Una notizia che, dopo essere stata pubblicata e diffusa, si rivela per falsa e priva di fondamento. La bufala è la cartina di tornasole che distingue la fiction dalla non fiction: nessuno rimprovera un romanzo perché non è ispirato al manoscritto seicentesco cui dice di riferirsi, perché parla della realtà senza pretendere di essere vero.
La parola bufala potrebbe essere ispirata alla moglie del famoso showman americano Buffalo Bill, che amava apparire vestita di pagine di romanzi.
La parola bufala verrebbe forse dall'antico titolo nobiliare carnevalesco di "bufalo di mezzogiorno", usato nei posti più settentrionali del meridione.
La parola bufala potrebbe anche riferirsi alla città americana di Buffalo, il cui giornale, The Buffalo Post, pubblicava regolarmente storie sui comportamenti delle nuvole, poi smentite dalle nuvole stesse.
La parola bufala potrebbe infine essere legata a certe notizie di allevamento, adatte alla vendita al dettaglio.
Abbiamo verificato: se leggete per immaginare la bufala soddisfa tutte le ipotesi precedenti; se invece in un testo cercate la verità, le precedenti sono tutte bufale. Vatti a fidare di internet.
Cura (s.f.): Sollecitudine, attenzione, rimedio, responsabilità... La cura ha un rapporto stretto con la scrittura: un po' lo vediamo nella firma dei volumi collettivi, che sono spesso "a cura di" qualcuno (il curatore, la curatrice, i curatori: la curatela).
Cura viene da un'antica radice indoeuropea legata al "guardare", alla capacità di osservare (cav / cau, da cui anche il 'caveat'). "Cura" e "curiosità" sono quindi parenti, e se ci fermiamo un attimo a guardarle, è proprio così.
Lo sguardo è ciò che lega i vari significati della parola cura: ed è cosa intimamente legata alla narrazione e alla letteratura. Le parole, i libri, possono curare perché ci aiutano a guardare: a guardare se stessi, ma anche il mondo (leggere è anche educare lo sguardo).
Lo sguardo è a sua volta legato alla conoscenza (così in greco, dove il verbo sapere è strettamente legato al vedere): in questo senso la cura è conoscenza. Non in senso metaforico: la cura è sguardo profondo, verso se stessi o verso il mondo, che guarisce; la conoscenza, la saggezza, la letteratura, le parole, vengono da lì, oppure non raccontano niente di interessante.